Campagna16 #giorno2: Violenza sulle Donne: la storia di Fatima, vittima in famiglia

                                                                                                                                                                                                                                                                                                              Immagine d’illustrazione – AJEM 

 

Fatima (Nome di fantasia) ha appena compiuto 41 anni. È vedova e madre di una bambina che oggi ha undici anni.  Entrambe, – madre e figlia- ricorderanno sempre i momenti difficili. Unica femmina in una famiglia di maschi, Fatima era al loro servizio. “La mia famiglia assecondava i soprusi che subivo dai miei fratelli e voleva che esaudissi i loro desideri”, racconta durante il nostro colloquio. Veniva spesso presa a botte dai fratelli quando non riusciva a fare ciò che le chiedevano. La madre non l’ha mai difesa perché i maschi erano considerati il supporto economico della famiglia. In mezzo a queste scene di violenza oltraggiosa, c’era sempre una spettatrice a cui questo spettacolo avrebbe dovuto essere evitato, sua figlia, che oggi ha undici anni: “mia figlia assisteva impotente a queste scene di violenza ed ingenuamente tentava di intromettersi tra me e i miei fratelli.” È così che la violenza affonda le sue radici all’interno della famiglia, che dovrebbe proteggere tutti i suoi figli, dove il patriarcato ha creato le basi per la violenza contro le DONNE. Indifesa ed insicura, Fatima si è allontanata dalla famiglia: “sono venuta qui” (nel Centro di recupero di Rabieh ndr) testimonia e, “grazie all’assistenza legale e psicosociale del Centro”, le cui attività sono sostenute anche dalla Cooperazione Italiana “oggi vivo in un foyer con mia figlia. Ho anche trovato un lavoro”. In questo Centro ha trovato il coraggio di esprimersi e punta ad avere ancora più autonomia e indipendenza.

 

Campagna#16 – #giorno3 : La PAROLA è la medicina a cura della violenza

Il punto di vista di Denise Abou Nassar, direttrice dell’Ajem Center di Beirut

       

PAROLE: raccontarsi può salvare la vita di una donna vittima di violenza, anche quando tutti pensano che sia già in salvo. Secondo Denise Abou Nassar, operatrice del settore sociale e responsabile dell’Ajem Center di Beirut, “la parola è il primo passo verso la guarigione dalla violenza subita”, ci racconta durante il nostro incontro. Il Centro, che include anche uno rifugio protetto, è l’unico luogo di accoglienza di ex detenuti in Libano , per aiutarli a reintegrarsi nella società. Prima azione del Centro è “creare le condizioni di fiducia affinché il soggetto abbia il coraggio di esprimersi.”, Afferma Denise che da anni lavora con ex detenuti, drogati, rifugiati e senza tetto. 200 persone dipendenti dalla droga vengono curate da AJEM, grazie anche ad un finanziamento della Cooperazione Italiana. Il Centro aiuta gli ex detenuti a ricostruire il rapporto con le famiglie, principalmente le mogli e i figli dopo la carcerazione e la riabilitazione nello shelter. “Quando si e’ in carcere, c’è sempre lo stigma e la relazione con la famiglia diventa problematica. A volte una reintegrazione non riuscita può portare a gravi violenze” commenta Denise che ci dice “Quando abbiamo aperto il nostro shelter ai persone vittime della droga, c’erano solo uomini e ci siamo chiesti perché?” racconta. “Poi abbiamo iniziato a realizzare delle campagne per far conoscere il nostro programma anche alle donne che vengono spesso obbligate dai compagni ad assumere la droga, loro malgrado. Per non aver paura e farsi curare perché è un loro diritto”. Anche perché “noi crediamo che tutte le vicende di droga in questo Paese abbiano un legame con la violenza.” E ancora una volta sono le donne ad essere più esposte: “Quando la persona che assume la droga è una donna, viene vista con maggiore stigma di un uomo e viene rigettata dall’intera società. È peggio.”

 

                                                                                                  Foto: In primo piano, Denise Abou Nassar con lo staff del centro durante la visita della Titolare di AICS Beirut,

                                                                                                                      Alessandra Piermattei (in fondo)- Copyright: Aics Beirut 

Campagna #16 Giorno#4: La storia di Pauline, dai matrimoni “tossici” alla galera per traffico di droga

In questa storia raccolta dagli operatori di Ajem in una prigione femminile libanese, la donna racconta il suo incubo tra una famiglia violenta, diversi matrimoni falliti e il carcere.  

Pauline, classe 1989 di famiglia siro-cristiana e libanese con un livello di educazione fino alla scuola elementare. Ha vissuto con il padre, che si è sposato e ha divorziato più volte, cambiando religione per potersi sposare. A dodici anni, decise di lasciare la casa di suo padre e di trasferirsi nel monastero di Deir Aabrine per allontanarsi dal padre e da sua moglie per le violenze che subiva. Non ha conosciuto sua madre naturale fino all’età di diciotto anni.

Anche Pauline, emulando il padre, si è sposata più volte, la prima volta con un matrimonio precoce all’età di sedici anni, ha avuto tre figli, una femmina e due maschi. I mariti di Pauline erano violenti, alcoolisti, tossicodipendenti, hanno abusato di lei costringendo lei e sua figlia a prostituirsi e a spacciare droga.

Ha tentato di sfuggire a questa vita trovando un lavoro come tassista, ma non era abbastanza per pagare l’affitto di casa; pertanto, è stata sfrattata ed è finita a vivere per strada. Così si è rimessa a spacciare droga per sopravvivere e alla fine è stata arrestata.

Attualmente si trova in carcere da 18 mesi. I suoi figli, tutti ancora minori, si trovano presso vari istituti e associazioni.

Pauline non ha nessuno su cui contare, ma in carcere grazie alle attività del progetto della Cooperazione italiana sta trovando dei benefici. L’assistenza psicosociale è stata fondamentale per lei per riacquistare fiducia in sé stessa; la formazione professionale con cui sta imparando degli skills che le consentiranno di trovare un lavoro dignitoso una volta uscite dal carcere.

Con queste attività Pauline sta gettando le basi per ricostruirsi una vita futura, senza violenza e senza droga, da poter trascorrere un giorno fuori dal carcere in compagnia dei propri figli.

 

Campagna #16 giorno #5: La psicologa: “Molte Donne detenute che seguiamo hanno sperimentato la violenza”

Lina Riachi – Ph.D in psicologia è la coordinatrice di Ajem Ong locale impegnata – con AICS e ARCS-  nel progetto “DROIT” per il miglioramento delle condizioni di detenzione nelle carceri libanesi.       

   

Lina Riachi è una psicologa e musicoterapeuta, coordinatore dei programmi di assistenza psico-sociale dell’organizzazione non governativa libanese AJEM, molto attiva nelle prigioni in Libano. Ha lavorato su vari progetti finanziati dalla Cooperazione Italiana nelle prigioni femminili e nel Centro di riabilitazione di Rabieh.

Con AJEM seguiamo molti casi di violenza di genere, sia in prigione che fuori, e organizziamo campagne di sensibilizzazione e conferenze su questo tema, per aiutare queste donne che spesso sono VITTIME anche del PREGIUDIZIO”.

Le attività di assistenza psicosociale svolte da AJEM con il supporto di AICS, con sessioni settimanali di gruppo e individuali, hanno permesso alle donne vittime di violenza di esprimere le proprie emozioni, di ripensare alla propria vita e cercare di trovare una soluzione ai loro problemi. “Cerchiamo di dare loro la SPERANZA DI POTERCELA FARE, di aspirare ad una vita migliore in futuro”. 

A volte ci limitiamo ad ascoltarle, a volte le guidiamo e se ce lo chiedono le indirizziamo, a volte vogliono solo avere la possibilità di ascoltare della musica e rilassarsi, piangere per SFOGARE IL LORO DOLORE della vita passata”.

Ci riferisce Lina che tali donne si pentono di ciò che hanno commesso, ma spesso gli atti criminali compiuti sono la conseguenza delle violenze subite nell’ambito familiare. Le famiglie purtroppo spesso non condannano e tollerano gli atti di violenza, le madri di queste stesse donne permettono le violenze sulle proprie figlie e sono a loro volta vittime.

Ritengo ci sia bisogno di più campagne di sensibilizzazione verso i genitori e le generazioni più anziane. Le NUOVE GENERAZIONI SONO MIGLIORI, più evolute, cominciano a comprendere che è sbagliato e ad agire diversamente”.

                                                     Foto: Lina Riachi (a destra) con una collega e l’Esperta AICS Rita Petrilli presso la sede di AJEM – Beirut 

Campagna #16 giorno #7: “Voi ci vedete come esseri umani non come assassine e criminali”

Oggi, la testimonainza di Charlotte Tanios – Coordinatrice del settore protezione in Mouvement Social  

 

Charlotte è la coordinatrice del settore protezione per Mouvement Social, una ONG che lavora nelle prigioni femminili in Libano da oltre 20 anni, offrendo supporto psicologico e varie attività di formazione professionale, tenendo presenti le aspirazioni delle donne detenute, al fine di consentire loro di avere un minimo reddito in prigione.

“È molto importante per le detenute essere attive in prigione ed avere un po’ di denaro, soprattutto per le migranti che non hanno familiari vicini come anche per le donne libanesi le cui famiglie, a causa della crisi economica e finanziaria che sta attraversando il paese, non hanno le possibilità e i mezzi per recarsi in visita in prigione e portare beni di prima necessità. Con le attività che svolgiamo cerchiamo di dare loro INDIPENDENZA per essere autonome all’interno del carcere. Vorrei sottolineare che, quando le donne arrivano in prigione si sentono SOLE, SPEZZATE, DISTURBATE CONFUSE, non sanno niente del loro fascicolo legale, hanno bisogno di essere supportate, di sapere quando saranno rilasciate e di come possono riprogrammare la loro vita dopo l’uscita di prigione”.

Il processo di reintegrazione nella società è la prima preoccupazione durante la fase di riabilitazione che svolgono in prigione: “Con il nostro team di operatori sociali, psicologi, avvocati cerchiamo di fornire loro servizi con un approccio olistico per renderle consapevoli della propria situazione in prigione, anche quando sono condannate a lungo termine”.

Molte donne provengono da contesti familiari vulnerabili, sono state vittime di lavoro minorile, matrimoni precoci, non hanno ricevuto formazione professionale, ma hanno vissuto in un contesto di criminalità e pertanto sono entrate in questo circolo vizioso.

La mancanza di affetto, di supporto e di attenzione a volte le ha portate a cercare rifugio nella droga o a trovarsi in percorsi criminali e così alcune di loro sono finite in prigione. Le donne detenute sono responsabili di ciò che hanno fatto, ma allo stesso tempo sono state vittime. “Pensiamo a bambine costrette a lavorare o a sposarsi con uomini che non conoscono, senza avere le capacità per lottare e ribellarsi e, quando a loro volta hanno figli, in contesti di vulnerabilità potete immaginare come si comportano come madri, senza supporto da parte della propria famiglia. Si rifiutano di vivere con la famiglia, cercano rifugio altrove e finiscono in situazioni di conflitto con la legge. Pertanto, l’AGGREDITO DIVIENE AGGRESSORE, è un ciclo perverso e durante il nostro lavoro RITROVIAMO LA BAMBINA CHE È IN LORO che vuole essere LIBERA e FORTE per essere RISPETTATA COME DONNA”.

“Molte detenute ci hanno detto che qui in prigione e nell’ambito delle attività che svolgiamo con loro  si sono sentite rispettate, VOI CI VEDETE COME ESSERI UMANI NON COME ASSASSINE O CRIMINALI, voi riuscite a comprendere quali sono le nostre competenze e capacità affinché noi le possiamo sviluppare per una vita futura migliore. Io ho avuto la fortuna di crescere in una buona famiglia, con la possibilità studiare e di conoscere i miei diritti. Queste donne, invece, spesso sono cresciute in un contesto sociale patriarcale, poco istruito e vulnerabile che le predispone a diventare vittime.  Per questo ho scelto di lavorare nel settore per DARE IL MIO CONTRIBUTO COME DONNA A SOSTEGNO DI ALTRE DONNE e dimostrare che ABBIAMO POTERE”.

Campagna #16 giorno #8: Samar: le cicatrici emotive dello stupro e di continui abusi

Samar, nata nel 1980, ha avuto un percorso di vita turbolento, segnato da importanti difficoltà. Attualmente divorziata con tre figli, uno di 27 anni, una di 24 anni e, la più giovane, di 11 anni.

Le radici delle difficoltà di Samar risalgono alla sua giovane età, quando rimane vittima di uno stupro per mano dell’autista dello scuolabus. Un trauma che la condurrà poi a un matrimonio forzato con lo stesso uomo che l’ha stuprata. Il matrimonio è per lei una sfida estenuante, caratterizzata da violenza fisica quotidiana. Durante le sue gravidanze, Samar sopporta percosse e stupri da parte del marito, che causano il parto prematuro di due dei suoi figli.

Per un periodo, la famiglia di origine decide di darle sostegno economico. Ma nonostante questo, il rapporto con il padre rimane conflittuale e segnato da cicatrici emotive: egli, infatti, è la stessa persona che l’ha costretta a sposare il suo stupratore.

Il suo benessere emotivo è quindi segnato da un’ombra di paura e cospetto nei confronti delle due figure maschili principali della sua vita, il padre e il marito. Per un tragico effetto a catena, anche la figlia cade vittima degli abusi di suo padre. Cacciata da casa, si ritrova alla mercé della dura vita di strada.

Il ciclo di violenza è continuato durante i lunghi 36 anni di matrimonio, ma nonostante questo Samar, con estrema resilienza, riesce a sostenere la sua famiglia con la creazione di una piccola impresa di produzione di pane per la Chiesa.

Quando la figlia torna a casa accompagnata dal fidanzato, Samar viene accusata dal marito di avere una relazione con il fidanzato della figlia, motivo per il quale la figlia verrà definitivamente disconosciuta dallo stesso padre.

Samar, ostracizzata dalla propria famiglia, stremata dai continui abusi ricevuti, si ritrova inevitabilmente in una posizione vulnerabile che, per una serie di eventi, sfocerà nel suo coinvolgimento nell’uso e traffico di droga. Progressivamente si vedrà coinvolta in una spirale di criminalità che culminerà con il suo arresto.

Questa storia dimostra come i traumi subiti sin dall’infanzia e i continui abusi all’interno del nucleo familiare possano segnare la persona e condurla al crimine e quindi al carcere.

 

Campagna #16 giorno #9, L’Avvocato Khoury: “LOTTARE CONTRO LA VIOLENZA CON DETERMINATE POLITICHE E REGOLE”

Oggi la testimonianza di Adham El Khoury, avvocato e assistente legale in Mouvement Social

   Adham El Khoury è un avvocato libanese impegnato da anni in diversi settori, tra cui quello aziendale e commerciale, ma ha avuto l’opportunità di lavorare con Movement Social, organizzazione della società civile che collabora con AICS Beirut nel progetto di assistenza ai detenuti, tra cui le donne detenute nelle due carceri femminili di Baabda e Barbar El Khazen a Beirut.

Questo progetto per me è molto gratificante perché costituisce l’unico lavoro con scopo umanitario che svolgo, ecco perché mi appassiona. Da quando ho iniziato la mia collaborazione con Mouvement Social, sto aiutando persone vulnerabili che non possono  permettersi un avvocato difensore e che senza questo supporto rimangono senza difesa. Sento la responsabilità che mi assumo perché queste persone contano su di me “.

Per la campagna di #16 giorni contro la violenza di genere sulle donne,  così ha parlato Adham durante il colloquio coi nostri esperti. “Il lavoro che stiamo facendo grazie al contributo dell’AICS mi commuove quando vedo il risultato. Ciò significa aiutare i detenuti, in particolare le donne, seguire le loro pratiche nell’ambito dell’assistenza legale,  di cui la maggior parte dei detenuti sono sprovvisti, aiutarli ad ottenere una sentenza e a uscire dalla prigione.” L’assistenza legale è una delle componenti più importanti del progetto finanziato dall’AICS e questa è anche la prima richiesta delle persone detenute. In Libano non esiste il gratuito patrocinio, la difesa d’ufficio è rimesso al volontariato.

Quando qualcuno  e’ arrestato, la prima cosa di cui ha bisogno è un avvocato che spesso non ha. L’assistenza e legale e’ affidata a me per seguire il loro caso.”

Ricorda varie storie di donne mandate in carcere mentre erano anche loro stesse delle vittime. Storie che ci siamo impegnati a raccontare sin dall’inizio di questa campagna, indetta a livello centrale da AICS e suffragata a da queste testimonianze

Per l’avvocato Adam, “la violenza non ha genere, la violenza sulle persone va combattuta e basta.  Si dovrebbe agire a livello legislativo e regolamentare ma anche nella società e nelle comunità attraverso  campagne di sensibilizzazione per dare alle persone consapevolezza, e promuovere i diritti delle donne”.

Campagna #16 STORIA #10: “Basma, vittima di violenza sul lavoro”

Oggi la storia di Basma, migrante detenuta in una prigione femminile in Libano.

 

Basma, 44 anni, viene dal Sri Lanka. È arrivata in Libano all’età di 19 anni e ha trovato occupazione come lavoratrice domestica presso una famiglia libanese. 

La sua esperienza lavorativa è stata una tortura, “mi picchiavano e maltrattavano continuamente, il marito anche con bruciature di sigarette sul mio corpo, dormivo in cucina, avevano sequestrato i miei documenti, mi chiudevano in casa e, oltre a tutto questo, non mi pagavano per il mio lavoro”.

Dopo un anno si è ammalata e ci ha raccontato  “Un giorno non avendo diritto ad un telefono, ho usato di nascosto il telefono della signora e ho chiamato un mio vicino in Sri Lanka per chiedere aiuto, la signora se n’è accorta e mi ha picchiata selvaggiamente, a quel punto per DIFENFERMI L’HO UCCISA con un coltello”.

Quindi Basma è stata arrestata e condannata al carcere  a vita. Grazie all’assistenza legale la sua pena è stata ridotta a 25 anni per buona condotta. Ha già scontato 24 anni e 6 mesi, pertanto tra poco uscirà di prigione e vorrebbe tornare in Sri Lanka dalla sua famiglia.

In prigione Basma è considerata un modello per le altre detenute, la Direttrice del carcere manda tutte le nuove arrivate da lei a fare una introduzione. Nell’ambito dei progetti finanziati da AICS, ha seguito corsi di formazione e ha lavorato come estetista, parrucchiera, sarta, artigiana, per produrre un po’ di reddito e mandare denaro a casa in Sri Lanka.

In prigione ho imparato come costruirmi una VITA MIGLIORE e come ESSERE DI AIUTO agli altri”.

 

 

#Campagna16 #giorni11: “Una Campagna come nostro contributo”

Oggi la tetsimonianza di Rita Petrilli, Esperta di Diritti Umani e focal point per la campagna per la sede di AICS Beirut: “Contro la violenza ognuno di noi può dare il suo contributo”.

La Campagna di racconti e di testimonianze che stiamo per concludere non può lasciare nessuno indifferente, a maggior ragione chi come noi segue da vicino lo svolgimento delle iniziative frutto dell’intervento italiano a sostegno delle carceri libanesi. Come professionista e donna rimane dentro di me la FORTISSIMA EMOZIONE, emersa durante il momento della raccolta di queste STORIE così TOCCANTI, da far piangere alcuni colleghi presenti al mio fianco. Da una parte, perché le storie andavano raccolte in ambiti straordinari quali le prigioni. Ma anche perché le persone da raccontare non sono solo detenute e, pertanto, persone vulnerabili, ma sono ESSERI UMANI e, in particolare, DONNE.

La domanda sul perché andare in prigione a raccogliere storie di violenza sulle donne trova una riposta nei motivi stessi che hanno portato la Cooperazione italiana a sostenere il Governo libanese, colpito da una grave crisi economica e sociale, per migliorare la situazione penitenziaria e giudiziaria. In un paese dove la maggior parte della popolazione carceraria si trova in custodia cautelare, i detenuti hanno bisogno di assistenza legale e psicosociale. Sfida che AICS Beirut ha deciso di cogliere promuovendo iniziative a sostegno dei detenuti, in collaborazione con le OSC ARCS, Ajem e Movement Social.

Ho potuto vedere come il nostro sostegno fosse in grado di accendere SPERANZA a queste donne che sono in prigione pur essendo delle VITTIME.  Molte di loro sono finite in carcere a causa dell’ambiente familiare violento in cui hanno vissuto, per una reazione estrema a ennesime violenze subite, senza che la società intervenisse per aiutarle. Hanno dovuto proteggersi da sole e hanno visto come unica via d’uscita e ULTIMO GESTO DISPERATO il CRIMINE.

Mi ha molto colpito una donna detenuta, che ha già scontato 24 anni di prigione, quando mi ha detto “l’HO UCCISA” con le lacrime agli occhi, riferendosi alla sua datrice di lavoro.  Aveva solo 19 anni, era il suo primo lavoro come collaboratrice domestica e per difendersi dalle continue percosse ha compiuto questo gesto e ha passato il resto della sua vita in prigione.

Dal carcere si RIPARTE, le testimonianze delle detenute e degli operatori ci dimostrano che è possibile, che le attività intraprese con i progetti di cooperazione di AICS Beirut insieme alle OSC hanno un impatto positivo e sono fondamentali per avviare un processo di recupero.

L’assistenza legale, ci riferiscono gli avvocati di AJEM e Mouvement Social, è la prima cosa che chiedono i detenuti appena arrivano in prigione. Grazie a questa attività molte donne detenute, in attesa di giudizio da anni, hanno ottenuto una sentenza e sono uscite di prigione. Quando ho letto i rapporti sull’assistenza legale fornita con il nostro progetto, e ho appreso che alcune detenute sono state scarcerate, anche se è una goccia nel mare, questa goccia può ricominciare a vivere, e questa è la GRANDE GRATIFICAZIONE del mio lavoro in Cooperazione.

Il supporto psico sociale e la formazione le hanno aiutate a riprendere confidenza in sé stesse, a perdonare e non odiare coloro che le hanno maltrattate, a cercare di ristabilire un diverso rapporto all’interno della famiglia e a ottenere gli skills necessari per affermare la propria INDIPENDENZA nella vita futura fuori dalle mura carcerarie. È stata una soddisfazione sentire queste parole: – “Sono entrata in carcere che ero persa, spezzata, sola, adesso ho riacquistato fiducia in me stessa quando esco voglio lavorare ed essere autonoma”. 

Le testimonianze che abbiamo ascoltato devono far aprire gli occhi a tutti: alle altre vittime di violenza per reagire, denunciare e cercare supporto e alla società perché va cambiata la mentalità che tollera la violenza. Mi ha fatto riflettere che le stesse madri non si oppongano alle violenze sulle proprie figlie e a volte le mettano in atto loro stesse perché sono anch’esse vittime di una mentalità malata.

Ognuno di noi può e deve contribuire a combattere la violenza per tutelare ed affermare i diritti delle vittime che non devono restare SOLE.

Campagna #16 #giorno12 Lamis: tra matrimonio precoce e violenza

Lamis, 30 anni, di nazionalità siriana, è detenuta in una prigione femminile in Libano.

Orfana di genitori, che non ha mai conosciuto, è cresciuta con la nonna paterna. All’età di 13 anni, il fratello l’ha costretta, PICCHIANDOLA, a un MATRIMONIO PRECOCE. Nel 2011, allo scoppio della guerra, è venuta in Libano con il marito.

Con 7 figli viveva con la famiglia del marito, tossicodipendente che non aveva occupazione e la costringeva a lavorare come domestica, per mantenere la famiglia. 

Dopo 14 anni di matrimonio ha lasciato marito e figli per tornare dal fratello che l’ha picchiata e messa per strada. Quando poi, ha iniziato a lavorare in una fabbrica ed  ha provato ricostruirsi una vita, e’ stata  accusatata ingiustamente dal suo datore di lavoro di furto e tentato omicidio e quindi arrestata e si trova in prigione da 6 mesi. 

Grazie al progetto di AICS Beirut, un avvocato si sta occupando del suo caso ed che la sta seguendo, è fiduciosa che sarà assolta perché INNOCENTE.

È una donna, sola, vittima di violenza che grazie all’aiuto di uno dei nostri progetti di cooperazione avra’ speranza di una vita migliore.